Sono tanti i giocatori che sognano di modificare il proprio status, da amatori o comunque “saltuari” a professionisti a tutti gli effetti. C’è invece chi mantiene le distanze, facendo a volte capire che il ruolo di pro player proprio non gli si addice. Siamo dunque davanti a una domanda: quando un giocatore amatoriale diventa professionista, anche se non riesce ad ammetterlo?
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Il vantaggio di non essere un pro player
È sempre divertente vedere come le cose cambiano. Agli albori del boom del poker eravamo circondati da personaggi che si professavano pro player, pur non essendolo realmente. Al giorno d’oggi, invece, sono tanti i professionisti che cercano di tenere un profilo basso. C’è anche chi sostiene di essersi ritirato, come Fedor Holz, oppure uomini d’affari che si dedicano al poker, come Tony G.
E appare a noi ovvio il fatto che certi fenomeni appartengano alla scena high stakes. L’esempio più lampante è legato al recente Coin Rivet Invitational, in cui si sono mischiati in maniera perfetta i pro players e i ricchi amatori.
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Vincere non è sinonimo di professionismo
Non è sempre ovvio che il giocatore che vince di più di quanto guadagni lavorando, sia un pro player a tutti gli effetti. Se la mettessimo sempre su questo piano, Jerry Yang sarebbe un giocatore professionista. Chiunque può diventare “caldo come una stufa” e vincere una somma di denaro mai vista lavorando.
E poi ci sono altri casi in cui dalle vittorie al tavolo derivano guadagni ben più grandi. Ad esempio potremmo dire che la sponsorship di Daniel Negreanu con GGPoker e con altri brand gli frutti più dell’attività pokeristica.
Quindi, di fronte alla domanda “è meglio essere un pro o un amatore?” non c’è una risposta perfetta. L’unica cosa che ci sentiamo di dire è quella di mantenere una auto-valutazione onesta e mai estrema, in un senso come nell’altro.